http://www.valtellinanews.it/articoli/il-museo-di-storia-e-arte-di-sondrio-dedica-una-mostra-a-rosa-genoni-20180603/
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https://mvsa-sondrio.com/2018/06/02/mostre-al-mvsa-negli-occhi-degli-sconosciuti-di-francesca-candito/Clicca qui per modificare.
http://www.traccedistudio.it/5282/mostra-personale-francesca-candito-rosa-genoni.html
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Avvenire - Massimiliano Castellani - 24 maggio 2017
I Quaderni di Nuova Scena Antica - Daniela Bestetti - luglio 2017
Corriere della sera - Rosella Redaelli - 21 dicembre 2016
Corriere del Mezzogiorno - 8 maggio 2017 - Casamassima - Premio arte contemporanea 16 opere in mostra per la finale
Recensione in occasione della mostra "Volti dell'anima"
Volti che esulano dalla cronaca quotidiana per entrare in una dimensione altra, un’eternità esistenziale sottratta alle leggi del tempo e degli uomini. Esodo di un’umanità al limite tra mera sopravvivenza e un destino di sopraffazione, di muri e isolamento.
I dipinti di Francesca Candito riportano la realtà, la ferrea realtà di quest’epoca, recuperando volti unici e individuali attraverso la folla soffocante, la marea di migranti che ogni giorno affrontano il deserto e le onde del Mediterraneo. Un’umanità alla ricerca di vita e di se stessa, sguardi che parlano di noi documentando ciò che accade all’altro. Fratelli in viaggio o in fuga che, travolti dalla sofferenza e dalla speranza, ripercorrono le rotte inverse di Odisseo lontano dalla patria (il suolo e la cultura dei padri e delle madri), per approdare in una terra diversa che non è più la stessa. Orme abbandonate sulle spiagge d’Europa, come orbite vuote sotto un cielo superstite.
Non si può rimanere indifferenti dinanzi a queste opere, che con un taglio espressionistico evidenziano, nei volti, la loro essenza spirituale. Una partitura di segni e colori istintuali, su sfondo nero azzerato, per far risaltare l’individualità di anime lontane, di sguardi a noi vicini.
Luigi Marsiglia
Volti che esulano dalla cronaca quotidiana per entrare in una dimensione altra, un’eternità esistenziale sottratta alle leggi del tempo e degli uomini. Esodo di un’umanità al limite tra mera sopravvivenza e un destino di sopraffazione, di muri e isolamento.
I dipinti di Francesca Candito riportano la realtà, la ferrea realtà di quest’epoca, recuperando volti unici e individuali attraverso la folla soffocante, la marea di migranti che ogni giorno affrontano il deserto e le onde del Mediterraneo. Un’umanità alla ricerca di vita e di se stessa, sguardi che parlano di noi documentando ciò che accade all’altro. Fratelli in viaggio o in fuga che, travolti dalla sofferenza e dalla speranza, ripercorrono le rotte inverse di Odisseo lontano dalla patria (il suolo e la cultura dei padri e delle madri), per approdare in una terra diversa che non è più la stessa. Orme abbandonate sulle spiagge d’Europa, come orbite vuote sotto un cielo superstite.
Non si può rimanere indifferenti dinanzi a queste opere, che con un taglio espressionistico evidenziano, nei volti, la loro essenza spirituale. Una partitura di segni e colori istintuali, su sfondo nero azzerato, per far risaltare l’individualità di anime lontane, di sguardi a noi vicini.
Luigi Marsiglia
Sogno, follia e realtà attuale nei dipinti di Francesca Candito
“Il discorso che ora udrete da me
sarà invece improvvisato
e per nulla studiato, ma tanto più vero”
Erasmo da Rotterdam, Elogio della Follia
Nel basso Medioevo, in diversi Paesi del Nord Europa, i cosiddetti “matti” venivano affidati a battellieri compiacenti che li traghettavano in lande deserte o in altri luoghi, abitati o meno, il più lontano possibile dalla cittadina da cui risultavano di fatto banditi. Il quadro viene efficacemente delineato da Michel Foucault nella sua Storia della follia, pubblicata a metà anni Sessanta, anche se è stato il poemetto satirico di Sebastian Brant del 1494, La Nave dei Folli (Das Narrenschiff), a porre in luce la questione del reietto “diverso” e del suo effettivo – e affettivo – allontanamento dal campo visivo dei “normali”.
Nelle differenti edizioni illustrate, la Stultifera navis di Brant è stata di volta in volta arricchita di xilografie, molte delle quali attribuite a Dürer, mentre è di Hieronymus Bosch il frammento di trittico, custodito oggi al Louvre, che descrive il viaggio allegorico della Nave dei Folli.
Qual è il volto della pazzia, secondo i diversi gradi e le diverse declinazioni che le attribuiamo oggi? E’ poi così anomalo rispetto alla cosiddetta normalità? E’ questa la questione basilare della ricerca artistica sulla malattia mentale svolta in questi anni da Francesca Candito, l’impatto nei rapporti tra noi e l’altro. Una ricerca innanzi tutto pittorica, dalla quale non viene però esclusa la condizione umana inserita nell’attualità dell’oggi. Dipinti che originano nel profondo, da esperienze sicuramente personali che hanno coinvolto l’autrice a vari livelli emotivi; questi visi non diventano cifre anonime o fattori da trasporre in un angolo intimo del vissuto soggettivo, ma elementi universali, paesaggi umani che trasmettono il loro sentire, merito anche del silenzio dato da uno sfondo pittorico omogeneo e spesso imbrunito o annerito o (quasi) scialbato. Un grido muto percepito attraverso occhi coinvolgenti, sguardi mobili, espressioni che ridestano un’attenta riflessione, singolare eppure speculare, che parla sicuramente anche di noi. “Tutti i luoghi sono pieni di folli” sosteneva Cicerone: la follia che è tanto vicina e lontana dal nostro quotidiano.
L’espressionismo di questi dipinti giunge da lontano, da quel Nord, da un naviglio che si allontana da Francoforte sul Meno diretto magari a Magonza col proprio carico urlante. Espressionismo abbiamo detto; particolare è infatti il segno che emerge dalle tele o dalle carte, sempre nitido nonostante il gesto istintuale di Francesca, la quale cerca una risposta attraverso cromatismi precisi, tali da non lasciare spazio alla freddezza: i territori cromatici evidenziano il volto, quel volto paesaggio segnato dal tempo e – intuiamo – dalla sofferenza del vivere. Matti, oppure persone normali rapite in un sogno altro, estraneo ai più?
E, ancora, navi che conducono a bordo speranza e morte: battelli-rottami, questa volta, di migranti in balia delle onde del Mediterraneo: un mare vuoto, insanguinato dentro a un bianco evanescente, macchiato anche qui da esseri brulicanti, soli nella loro storia univoca e universale. Una disperata speranza riportata da Francesca Candito su tele dedicate al moderno esodo biblico, alla diaspora forzata dal Sud e dall’Oriente del mondo. L’attualità che tramuta in un sogno-incubo, una realtà per nulla banale malgrado la tentata banalizzazione dei telegiornali-feuilletton, così da tendere ancora una volta ad allontanare ciò che è tanto vicino da rischiare di coinvolgerci, eticamente più che moralmente, in maniera diretta, ponendo alla prova noi stessi e le nostre dozzinali convinzioni.
In queste opere, accanto all’espressionismo compiuto e compunto di visi e figure (carte in cui avvertiamo l’avanzare immobile dei tratti reali dei volti), grazie a segni intuitivi e colori sagaci, a cromatismi attesi e nitidi nella loro densità istintuale capace di creare occhi e volti da un gesto che ritorna, ecco l’inserimento di lettere e immagini della quotidianità ripresi da rotocalchi e manifesti, in un collage di ciò che ruota intorno e all’interno di teste “normali” o meno. Ritagli di pesci, minute lettere a formare nomi predefiniti ed evocativi: come per esempio “Nino”, simboleggiando quindi in quell’attimo la concretezza incancellabile, nella mente dell’autrice come nel dipinto, del vero Nino. Parole senza senso o che emettono un verdetto, come le “pillole” (il vocabolo è già immagine, flatus vocis sostantivato, termine impalpabile eppure agguantabile), ovvero le pillole per affrontare il giorno e la notte nella normalità folle del tempo che scorre inesorabile per tutti.
Opere in cui il colore/dolore appare sparso in uno sfondo spesso annullato o da cui emergono effetti “dripping”, gocciolamenti che non intralciano la pulizia singolare del segno o dell’intento, in un chiaroscuro da cui risaltano lineamenti e occhi. Occhi appunto che ci guardano. Noi, i normali, i sani insani?
Luigi Marsiglia
“Il discorso che ora udrete da me
sarà invece improvvisato
e per nulla studiato, ma tanto più vero”
Erasmo da Rotterdam, Elogio della Follia
Nel basso Medioevo, in diversi Paesi del Nord Europa, i cosiddetti “matti” venivano affidati a battellieri compiacenti che li traghettavano in lande deserte o in altri luoghi, abitati o meno, il più lontano possibile dalla cittadina da cui risultavano di fatto banditi. Il quadro viene efficacemente delineato da Michel Foucault nella sua Storia della follia, pubblicata a metà anni Sessanta, anche se è stato il poemetto satirico di Sebastian Brant del 1494, La Nave dei Folli (Das Narrenschiff), a porre in luce la questione del reietto “diverso” e del suo effettivo – e affettivo – allontanamento dal campo visivo dei “normali”.
Nelle differenti edizioni illustrate, la Stultifera navis di Brant è stata di volta in volta arricchita di xilografie, molte delle quali attribuite a Dürer, mentre è di Hieronymus Bosch il frammento di trittico, custodito oggi al Louvre, che descrive il viaggio allegorico della Nave dei Folli.
Qual è il volto della pazzia, secondo i diversi gradi e le diverse declinazioni che le attribuiamo oggi? E’ poi così anomalo rispetto alla cosiddetta normalità? E’ questa la questione basilare della ricerca artistica sulla malattia mentale svolta in questi anni da Francesca Candito, l’impatto nei rapporti tra noi e l’altro. Una ricerca innanzi tutto pittorica, dalla quale non viene però esclusa la condizione umana inserita nell’attualità dell’oggi. Dipinti che originano nel profondo, da esperienze sicuramente personali che hanno coinvolto l’autrice a vari livelli emotivi; questi visi non diventano cifre anonime o fattori da trasporre in un angolo intimo del vissuto soggettivo, ma elementi universali, paesaggi umani che trasmettono il loro sentire, merito anche del silenzio dato da uno sfondo pittorico omogeneo e spesso imbrunito o annerito o (quasi) scialbato. Un grido muto percepito attraverso occhi coinvolgenti, sguardi mobili, espressioni che ridestano un’attenta riflessione, singolare eppure speculare, che parla sicuramente anche di noi. “Tutti i luoghi sono pieni di folli” sosteneva Cicerone: la follia che è tanto vicina e lontana dal nostro quotidiano.
L’espressionismo di questi dipinti giunge da lontano, da quel Nord, da un naviglio che si allontana da Francoforte sul Meno diretto magari a Magonza col proprio carico urlante. Espressionismo abbiamo detto; particolare è infatti il segno che emerge dalle tele o dalle carte, sempre nitido nonostante il gesto istintuale di Francesca, la quale cerca una risposta attraverso cromatismi precisi, tali da non lasciare spazio alla freddezza: i territori cromatici evidenziano il volto, quel volto paesaggio segnato dal tempo e – intuiamo – dalla sofferenza del vivere. Matti, oppure persone normali rapite in un sogno altro, estraneo ai più?
E, ancora, navi che conducono a bordo speranza e morte: battelli-rottami, questa volta, di migranti in balia delle onde del Mediterraneo: un mare vuoto, insanguinato dentro a un bianco evanescente, macchiato anche qui da esseri brulicanti, soli nella loro storia univoca e universale. Una disperata speranza riportata da Francesca Candito su tele dedicate al moderno esodo biblico, alla diaspora forzata dal Sud e dall’Oriente del mondo. L’attualità che tramuta in un sogno-incubo, una realtà per nulla banale malgrado la tentata banalizzazione dei telegiornali-feuilletton, così da tendere ancora una volta ad allontanare ciò che è tanto vicino da rischiare di coinvolgerci, eticamente più che moralmente, in maniera diretta, ponendo alla prova noi stessi e le nostre dozzinali convinzioni.
In queste opere, accanto all’espressionismo compiuto e compunto di visi e figure (carte in cui avvertiamo l’avanzare immobile dei tratti reali dei volti), grazie a segni intuitivi e colori sagaci, a cromatismi attesi e nitidi nella loro densità istintuale capace di creare occhi e volti da un gesto che ritorna, ecco l’inserimento di lettere e immagini della quotidianità ripresi da rotocalchi e manifesti, in un collage di ciò che ruota intorno e all’interno di teste “normali” o meno. Ritagli di pesci, minute lettere a formare nomi predefiniti ed evocativi: come per esempio “Nino”, simboleggiando quindi in quell’attimo la concretezza incancellabile, nella mente dell’autrice come nel dipinto, del vero Nino. Parole senza senso o che emettono un verdetto, come le “pillole” (il vocabolo è già immagine, flatus vocis sostantivato, termine impalpabile eppure agguantabile), ovvero le pillole per affrontare il giorno e la notte nella normalità folle del tempo che scorre inesorabile per tutti.
Opere in cui il colore/dolore appare sparso in uno sfondo spesso annullato o da cui emergono effetti “dripping”, gocciolamenti che non intralciano la pulizia singolare del segno o dell’intento, in un chiaroscuro da cui risaltano lineamenti e occhi. Occhi appunto che ci guardano. Noi, i normali, i sani insani?
Luigi Marsiglia
Recensione in occasione della mostra "Mania Semplice"
Qual è il confine tra ciò che riteniamo normale e ciò che facciamo rientrare nel semplicistico termine non-normale? O, ancora nel più ampio e variegato termine di follia?
Francesca Candito ci conduce attraverso la sua pittura nell’oscuro mondo della malattia mentale, attraverso immagini che evocano lo stato confusionale, il baratro e l’emarginazione in cui troppo spesso alcuni soggetti sono relegati a vivere. “Mania semplice”, titolo della mostra, vuole scandagliare le varie sfaccettature del disturbo mentale, cercando di sfatare i molti pregiudizi associati a questa condizione di segregazione e desolante vuoto. La sua ricerca analizza e coglie le sfumature dell’essere umano, tra gli sguardi sbarrati e le bocche spalancate in smorfie di sofferenza, cercando l’identità dietro l’anonimato, assegnando un nome a chi non è più nessuno, ma è solo abbandonato dietro ad un muro di negazione dell’esistenza. Una pittura che con semplicità racconta temi profondi legati alla nostra società odierna quali la solitudine e l’indifferenza, che vive all’interno del complesso dei centri urbani e si nutre nell’anonimato in una conseguente tacita accettazione.
Le sue opere indagano soggetti toccanti, attraverso corpi e volti definiti con tratto tagliente e spezzato, in una pittura che tende all’essenziale dove la materia si sfalda diventando nebbiosa, lasciando il posto a dettagli ben distinti che caratterizzano i volti dagli occhi penetranti e persi. L’artista si addentra nella mente, oltrepassa le barriere stigmatizzate, in una ricerca tesa alla compassione e comprensione umana, si spinge cercando di cogliere l’individualità perduta, tra pensieri scritti a grandi lettere in stampatello, colmando con piccole tessere il vuoto che avvolge le figure che vivono come spettri tra gli occhi del mondo.
Francesca affronta questi temi del disagio, dell’emarginazione e dell’abbandono con determinazione, palesandoli senza timori, cercando un dialogo alla rassegnazione. La sua tavolozza crea infiniti toni di grigio intervallati da profondi e bui neri da cui emergono cuori straziati e in cui il dramma viene enfatizzato da rapide pennellate rosso scarlatto e da gialli più pallidi, in cui irrompono lettere, frasi, numeri e simboli, quasi a colmare il silenzio angosciante.
D’indubbia qualità artistica l’operato di Francesca Candito riesce a creare atmosfere angoscianti e isolate, quasi liquide a tratti, compensate da un disegno deciso sottile e rapido, ponendo l’attenzione sia sull’insieme sia sui dettagli della mimica facciale superando l’apparente sofferenza per spingersi oltre, con una capacità che penetra l’animo umano.
Barbara Vincenzi
Qual è il confine tra ciò che riteniamo normale e ciò che facciamo rientrare nel semplicistico termine non-normale? O, ancora nel più ampio e variegato termine di follia?
Francesca Candito ci conduce attraverso la sua pittura nell’oscuro mondo della malattia mentale, attraverso immagini che evocano lo stato confusionale, il baratro e l’emarginazione in cui troppo spesso alcuni soggetti sono relegati a vivere. “Mania semplice”, titolo della mostra, vuole scandagliare le varie sfaccettature del disturbo mentale, cercando di sfatare i molti pregiudizi associati a questa condizione di segregazione e desolante vuoto. La sua ricerca analizza e coglie le sfumature dell’essere umano, tra gli sguardi sbarrati e le bocche spalancate in smorfie di sofferenza, cercando l’identità dietro l’anonimato, assegnando un nome a chi non è più nessuno, ma è solo abbandonato dietro ad un muro di negazione dell’esistenza. Una pittura che con semplicità racconta temi profondi legati alla nostra società odierna quali la solitudine e l’indifferenza, che vive all’interno del complesso dei centri urbani e si nutre nell’anonimato in una conseguente tacita accettazione.
Le sue opere indagano soggetti toccanti, attraverso corpi e volti definiti con tratto tagliente e spezzato, in una pittura che tende all’essenziale dove la materia si sfalda diventando nebbiosa, lasciando il posto a dettagli ben distinti che caratterizzano i volti dagli occhi penetranti e persi. L’artista si addentra nella mente, oltrepassa le barriere stigmatizzate, in una ricerca tesa alla compassione e comprensione umana, si spinge cercando di cogliere l’individualità perduta, tra pensieri scritti a grandi lettere in stampatello, colmando con piccole tessere il vuoto che avvolge le figure che vivono come spettri tra gli occhi del mondo.
Francesca affronta questi temi del disagio, dell’emarginazione e dell’abbandono con determinazione, palesandoli senza timori, cercando un dialogo alla rassegnazione. La sua tavolozza crea infiniti toni di grigio intervallati da profondi e bui neri da cui emergono cuori straziati e in cui il dramma viene enfatizzato da rapide pennellate rosso scarlatto e da gialli più pallidi, in cui irrompono lettere, frasi, numeri e simboli, quasi a colmare il silenzio angosciante.
D’indubbia qualità artistica l’operato di Francesca Candito riesce a creare atmosfere angoscianti e isolate, quasi liquide a tratti, compensate da un disegno deciso sottile e rapido, ponendo l’attenzione sia sull’insieme sia sui dettagli della mimica facciale superando l’apparente sofferenza per spingersi oltre, con una capacità che penetra l’animo umano.
Barbara Vincenzi
Recensione dell'opera "solitudine metropolitana"
La tela mostra gli effetti della realtà progressista sull’uomo, nonché la desolazione verso il deserto di relazioni umane che ci circonda e che accettiamo tacitamente come rassegnazione estrema.
Nell’indifferenza di una società contemporanea sempre più individualista l’arte di Francesca Candito pone l’urgenza di una riflessione interiore come una voce che si solleva al di sopra della solitudine urbana.
Attestazione visiva e documento di questa analisi introspettiva è il dipinto “Solitudine metropolitana” che denota un’esigenza di comunicazione interpersonale in un contesto via via più frenetico.
La tela, dominata da un madido scenario monocromo sui toni del giallo, mostra gli effetti devastanti della realtà progressista sull’uomo, nonché la desolazione verso il deserto di relazioni umane che ci circonda e che accettiamo tacitamente come rassegnazione estrema.
L’opera sottolinea, peraltro, anche il dramma dell’impotenza e l’angoscia di risoluzione dell’autrice di fronte a questo problema dilagante, affermando che “oggi della solitudine se ne parla poco ma se ne sente tanta”.
Sabina Falzone
La tela mostra gli effetti della realtà progressista sull’uomo, nonché la desolazione verso il deserto di relazioni umane che ci circonda e che accettiamo tacitamente come rassegnazione estrema.
Nell’indifferenza di una società contemporanea sempre più individualista l’arte di Francesca Candito pone l’urgenza di una riflessione interiore come una voce che si solleva al di sopra della solitudine urbana.
Attestazione visiva e documento di questa analisi introspettiva è il dipinto “Solitudine metropolitana” che denota un’esigenza di comunicazione interpersonale in un contesto via via più frenetico.
La tela, dominata da un madido scenario monocromo sui toni del giallo, mostra gli effetti devastanti della realtà progressista sull’uomo, nonché la desolazione verso il deserto di relazioni umane che ci circonda e che accettiamo tacitamente come rassegnazione estrema.
L’opera sottolinea, peraltro, anche il dramma dell’impotenza e l’angoscia di risoluzione dell’autrice di fronte a questo problema dilagante, affermando che “oggi della solitudine se ne parla poco ma se ne sente tanta”.
Sabina Falzone